DAL DIARIO DI PADRE BRIESNA DI MANNARA
INTRO
Padre Isacco Briesne Di Mannara, sconosciuto premio nobel per la tristezza nel 1968 e prete ortodosso part time a tratti pentito, è morto vecchissimo (per mano propria) nei primi anni 80 dopo una discussione animata sulla Controriforma con un infermiere razzista di Budapest. Scrittore, teologo e viveur protestante, ci ha lasciato mille e più testi: trattati sulla teologia in montagna, romanzi a puntate su santi sconosciuti, manuali di conversioni , tesi sulle manovre d'ancoraggio al vecchio testamento, romanzi brevi e tanto altro. Durante la sua lunghissima vita ha meticolosamente preso appunti su 213 diari, uno dei quali abbiamo scelto di pubblicare qui.
Questo che vi presentiamo, concessoci dalla fondazione Briesna di Mannara, è il K512, il primo per quanto riguarda la cronologia della sua vita, il quarto in ordine di scrittura, il secondo per ampiezza tematica, il quinto per dimensioni della copertina, il settimo per numero di pagine. E' il ricordo della sua giovine fanciullezza passata a Kanguskya col nonno, a partire dall'incontro col silenzioso Radu Klibanssky e con i variegati zingari folli del villaggio di Brezniezne che cambiarono per sempre la sua vita.
PRIMA PUNTATA
Kanguskya Maggio 1968
"Cosa porta un uomo e la sua rana a gettarsi dalla finestra?"...
Era il 1940 quando il mio vecchio nonno Ardziv, semi nudo, sudatissimo, e vagamente odoroso di yogurt, mi guardò negli occhi e me lo chiese. Lo ricordo come fosse ieri.
Poi mi picchiò con tutta la grazia della sua sapiente tecnica acquisita durante la grande guerra, e una volta finito mi costrinse a rubare due bici e pedalare scalzo lungo piccole strade sterrate, contorte e odorose di muffa, fino a scorgere una vecchia e altissima casa in legno di pioppo marcio poggiata malamente alle recinzioni di una rumorosa e puzzolente baraccopoli, al tempo conosciuta come “Brezniezne il villaggio dei folli”.
Li il vecchio nonno mi poggiò amorevolmente una mano sulla spalla e poi cominciò lo spettacolo...
un lentissimo sibilo nell'aria, un lieve vento fresco, un appena percettibile odore di alghe morte, e in alto un vecchio ed una rana che in silenzio cadevano dal cielo, un tonfo educatissimo, e poi la meravigliosa visione dei due che in silenzio si ricomponevano dopo il lungo volo... o almeno questo era ciò che percepivano i miei occhi da poco tumefatti dai poderosi calci di mio nonno.
In realtà avrei dovuto vedere solo un vecchio pazzo e la sua rana precipitare da un balcone con alle spalle centinaia di baracche colorate e puzzolenti, ma a quel tempo mi piaceva troppo la storia dell'uomo che volava, per questo motivo ho deciso di raccontare del vecchio Radu Klibansky e di Brezniezne, il villaggio dei folli.
La prima volta che vidi il vecchio in piedi era immobile e magrissimo sul ciglio di una strada, sembrava uno stilita bizantino nel deserto con lo scheletro di ferro battuto avvolto da una guaina di cuoio, o una di quelle sculture in legno di basso artigianato che i mercanti piu' poveri cercavano di vendere al mercato di Kanguskya dietro casa nostra.
Stava immobile da ore accanto la sua rana, con le anziane bretelle al vento a fissare un punto esatto del cielo dove dal nulla, all'improvviso, comparve un branco di sarde che saltava tra le nuvole.
- pesci mistici - disse a bassa voce.
Pesci che volavano...ricordo che non capivo se fosse la realtà o la conseguenza di qualche lieve commozione cerebrale dovuta alle singolari cure dio mio nonno, e rimasi così per tutto l'inverno del '40, senza parole.
Con il lentissimo tempo delle stagioni bielo-prussiane il vecchio Klibansky si merito' da parte mia tutto quel rispetto e quella devota ammirazione che per educazione avevo solo per le icone che mio nonno appendeva un po' ovunque in casa nostra, e che a volte usava per picchiarmi.
SECONDA PUNTATA
Sfuggito a qualsiasi tentativo classificazione Klibansky era... una particolare specie di vecchio misantropo ammuffito ormai da anni votato ad un solo obiettivo: volare.
La prima cosa che stupiva di lui era che fosse ancora vivo nonostante la sua indefinibile eta' e nonostante si nutrisse solo di tonno seccato al sole. Ho sempre pensato che la sua longevità fosse dovuta ad una strana e silenziosa energia datagli dal continuo inseguire il suo assurdo ed eruditissimo sogno fatto di teorie complicatissime, pesci che volano, pezzi di legno, mura scrostate, attrezzi arrugginiti, miliardi di libri, citta' arancioni, scatolette di tonno e personaggi allucinanti, nonché a un raffinatissimo senso di repulsione per quasi tutto, specialmente per gli esseri umani, che lo teneva molto in allenamento.
Klibansky era per me un personaggio assolutamente fantastico come tutti i così detti folli che col tempo incontrai dentro Brezniezne, ma a differenza loro appariva triste, e non perché fossero tristi i suoi pensieri o ciò che a volte diceva, ma perché era triste la sua figura, forse per via della sua indomabile cifosi, o per la poco curata calvizie, o per lo sguardo alla Rodolfo II. In realtà non lo ricordo, ma chiunque lo avesse guardato anche solo per un momento sarebbe stato colto da una strana sensazione, meglio nota come sindrome di Koliakopf, e riportata come "mistoditristezzaeangelicaarmonia" nel "catalogo delle emozioni labili dei Fratelli Kristopante", grosso libro rilegato che a volte mio nonno usava per picchiarmi.
TERZA PUNTATA
Kanguskya Agosto 1958
La scaltrezza del movimento per la liberazione dell'alluce dalla forca di un calzino bucato, mentre il piede è ancora all'interno della scarpa, non è cosa da poco, il difficile è riuscire a far rientrare il dito dentro il calzino arcuando il minimo indispensabile il metatarso senza essere visti, e meglio ancora senza togliersi la scarpa.
Radu klibansky era un maestro in quest'arte inutile come in tante altre. Ad esempio era in grado di comunicare per ore e ore con mio nonno ubriaco di vino e yogurt senza dire una sola parola, ma lasciando strani segni sui vecchi fogli per incartare il tonno che si accumulavano a milioni in casa sua e per fortuna mio nonno era invece un maestro nell'arte di ascoltare, come in quella in quella di picchiarmi.
In un certo senso devo molto al suo elegante modo di educarmi, alla sua teoria che si cresce bene solo se si sanguina tanto da piccoli, o alla sua mania di abbracciare nudo un albero fino all'alba e poi camminare scalzo sulla neve, tutti ricordi dei suoi dolci pellegrinaggi invernali nella Backa serba, tra il Danubio e il Tibisco, durante la guerra.
Senza mio nonno e le sue legnate, e senza le dolorose sgambate in bici fino alle porte di Brezniezne non avrei mai conosciuto Klibansky, neanche i folli e tantomeno Smirne, la sua grassa rana ebrea.
Smirne Korskofp non era una rana qualunque, ma una Lithobates catesbeianus (secondo la classificazione di Shaw del 1802), meglio nota come rana bue, o rana toro. Non parlava molto, e impiegai diversi anni a farmene un idea chiara.
Conobbe Klibansky nel 1945, quando il vecchio era già avanti negli anni e Smirne era da poco sbarcato dal Bangladesh dove viveva clandestinamente dal 1938, anno in cui subodorando le folli intenzioni di Hitler riuscì a fuggire dalla sua amata Polonia. Una rana ebrea che conosceva Aristotele a memoria, mai vista una...
QUARTA PUNTATA
Ricordo dei tardo pomeriggi lunghissimi nella mia infanzia, pieni di una densissima luce arancione che digradava verso un noioso viola metallico, piu' o meno all'ora del tramonto, a volte in quei momenti mentre stavo immobile a fissare il cielo con Klibansky e Smirne alla ricerca dei loro pesci mistici, un acre odore di sudore misto a urina, acidulo, da anziano, si diffondeva nell'aria.
Al tempo non lo sapevo ancora, ma era una delle tecniche che il vecchio Klibansky usava per allontanare la gente (cosa che nei momenti di più alta malinconia faceva anche con ne), ed era solo una delle tante che col tempo avrei avuto l'onore di usare anche io.
Una delle peggiori che il vecchio usava era quella di contenere per giorni interi area nell'intestino, farla marcire per bene ed usarla nei rari momenti in cui aveva attorno gente indesiderata.
Non era facile da realizzare, specialmente con quell'eleganza e senza emettere alcun rumore, ma i tantissimi anni di studio di Patanjali e di chimica delle interfasi evidentemente erano serviti a qualcosa.
QUINTA PUNTATA
E' sempre con una grande melanconia che ricordo il tempo in cui Klibansky sedeva sul tavolo di legno pieno di scarti di tonno, con i suoi calcoli e le sue misurazioni prima di gettarsi dal balcone nel tentativo di volare.
Ore ed ore di immobilità immerso nella luce di quella stanza con la sua rana, ed io lì ad osservare mentre lui, guardando la finestra, misurava il cielo con una strano serie di strumenti artigianali che a quel tempo per me non avevano alcun senso.
Ricordo ad esempio lo "statoiannico", un miscuglio di piccole lastre di ferro collegate da fili di cuoio che bloccavano un piccolo braccio di legno dove ad un'estremità era posto il mirino di una vecchia macchina fotografica degli anni quaranta di fabbricazione russo-etiope, e dall'altro un piccolo recipiente trasparente dove all'interno un canarino morto, con un'asticella conficcata nel ventre, galleggiava in un liquido con una meravigliosa gradazione di verde veronese, pieno di muffa.
Lo statoiannico serviva a misurare, a detta di Klibansky, la profondità dell'aria....
che concetto meraviglioso....ma che cos'era la profondità dell'aria?
era il risultato distillato dalla lettura di milioni di libri che negli anni Klibansky aveva divorato, anche fisicamente.
Alcuni li rubavo io in biblioteca travestendomi da Picasso o da Gertrude Stein, altri li trasportava illegalmente mio nonno con un carro funebre a gasolio pieno zeppo di galline. Così con gli anni il vecchio aveva accumulato un incredibile quantità di libri, tra i quali spiccavano i "Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica e ai moti locali" di Galileo in una preziosissima edizione originale del 1639 con la quale Smirne spesso dormiva, o i saggi di Payson Evans Edward con le documentazioni dei processi penali con relative condanne contro diversi tipi di animali nel sette e ottocento, o ancora vecchie traduzioni dei testi di Areteo di Cappadocia, con le varie teorie sulla tristezza, lo scoraggiamento e la tendenza al suicidio....
Con la sua frenetica lettura aveva imparato fin troppe cose, e basandosi su pericolosissimi calcoli con altrettanto pericolosi strumenti e agghiaccianti moltiplicazioni per un numero che lui chiamava "di Tolomeo", aveva elaborato una complessissima teoria secondo la quale sosteneva di poter trovare dei punti nell'aria dove il rapporto tra la pressione idrostatica, la longitudine, il vento e chissà cosa, determinassero una densità tale che fosse possibile galleggiare, nell'aria...
tanto più grande era il fantomatico numero di Tolomeo (espresso come mi fece notare una sera d'agosto Smirne in Gradi Bulgari), tanto più alta era la profondità dell'aria, e tanto più forte la resistenza alla gravità e quindi la possibilità di galleggiare nell'aria, e di volare...
Il tutto era confermato da uno stranissimo fenomeno al quale anche io ho avuto modo di assistere, la visione dei Pesci Mistici...
SESTA PUNTATA
Ma cos'erano? da dove venivano i pesci mistici?
Ero forse vittima di qualche dono regalatomi misteriosamente dal Signore in seguito ad una commozione cerebrale dovuta ai curiosi metodi educativi di mio nonno? Non saprei.
Ad ogni modo io ero spesso lì, con i miei occhi, a volte pesti a volte no, ad osservare immobile la bellezza di quella scena, branchi di pesci che saltavano sulle nuvole lasciando dietro di se un luccicchio dorato, sempre e solo nel tardo pomeriggio, quando l'aria era fresca e la luce arancione tendeva al violaceo con accenni di blu di prussia, e il tutto aveva un meraviglioso tono di santità.
Si trattava di pesci provenienti dal medio oriente (ebbi modo di sapere leggendo gli appunti di Klibansky), da San Giovanni d'Acri in particolare. Era una rarissima specie di sarda, la Sardina Pilchardus Sanctis, pesce immangiabile ma elegantissimo, il quale sei o sette volte l'anno colto da vocazione mistica comincia a volare ripercorrendo a ritroso, ma su un' altro parallelo, la strada che portò Papa Gregorio X da Brindisi a Gerusalemme, sfruttando in modo assolutamente istintivo i vari punti di maggiore densità dell'aria. Sembra però che per via del traffico aereo abbiano perso un pò il senso dell'orientamento...
Con gli anni ho assistito migliaia di volte a quelle scene, tutte le volte che i pesci volavano accanto al balcone di Klibansky lui si gettava dal trampolino di tubi di ferro montati sul balcone nella speranza di aver azzeccato i calcoli o l'osservazione del punto di densità esatto per galleggiare.
Regolarmente finiva per terra assieme a Smirne mentre io poggiavo i gomiti sulla ringhiera di cartone e guardavo il sole tramontare sul villaggio di Brezniezne.
Da li potevo vedere i tetti delle baracche pieni di stoffe lerce e colorate, le antenne artigianali per le radio, le fogne a cielo aperto, il tendone del circo-biblioteca gestito da due maiali da caccia, lo strano derelitto del sommergibile a vapore che Pellegrino Tolstoj pensava funzionasse, o il negozietto di non so cosa del signor S.P. Haindoven, un meraviglioso vecchietto di 25 chili che portava al collo una scatoletta arrugginita dove diceva si nascondesse la “causa di tutte le cose”.
Erano tutti personaggi che fino ad allora avevo solo visto dall'alto, ma nel giro di poco tempo avrei conosciuto a fondo.
INTRO
Padre Isacco Briesne Di Mannara, sconosciuto premio nobel per la tristezza nel 1968 e prete ortodosso part time a tratti pentito, è morto vecchissimo (per mano propria) nei primi anni 80 dopo una discussione animata sulla Controriforma con un infermiere razzista di Budapest. Scrittore, teologo e viveur protestante, ci ha lasciato mille e più testi: trattati sulla teologia in montagna, romanzi a puntate su santi sconosciuti, manuali di conversioni , tesi sulle manovre d'ancoraggio al vecchio testamento, romanzi brevi e tanto altro. Durante la sua lunghissima vita ha meticolosamente preso appunti su 213 diari, uno dei quali abbiamo scelto di pubblicare qui.
Questo che vi presentiamo, concessoci dalla fondazione Briesna di Mannara, è il K512, il primo per quanto riguarda la cronologia della sua vita, il quarto in ordine di scrittura, il secondo per ampiezza tematica, il quinto per dimensioni della copertina, il settimo per numero di pagine. E' il ricordo della sua giovine fanciullezza passata a Kanguskya col nonno, a partire dall'incontro col silenzioso Radu Klibanssky e con i variegati zingari folli del villaggio di Brezniezne che cambiarono per sempre la sua vita.
PRIMA PUNTATA
Kanguskya Maggio 1968
"Cosa porta un uomo e la sua rana a gettarsi dalla finestra?"...
Era il 1940 quando il mio vecchio nonno Ardziv, semi nudo, sudatissimo, e vagamente odoroso di yogurt, mi guardò negli occhi e me lo chiese. Lo ricordo come fosse ieri.
Poi mi picchiò con tutta la grazia della sua sapiente tecnica acquisita durante la grande guerra, e una volta finito mi costrinse a rubare due bici e pedalare scalzo lungo piccole strade sterrate, contorte e odorose di muffa, fino a scorgere una vecchia e altissima casa in legno di pioppo marcio poggiata malamente alle recinzioni di una rumorosa e puzzolente baraccopoli, al tempo conosciuta come “Brezniezne il villaggio dei folli”.
Li il vecchio nonno mi poggiò amorevolmente una mano sulla spalla e poi cominciò lo spettacolo...
un lentissimo sibilo nell'aria, un lieve vento fresco, un appena percettibile odore di alghe morte, e in alto un vecchio ed una rana che in silenzio cadevano dal cielo, un tonfo educatissimo, e poi la meravigliosa visione dei due che in silenzio si ricomponevano dopo il lungo volo... o almeno questo era ciò che percepivano i miei occhi da poco tumefatti dai poderosi calci di mio nonno.
In realtà avrei dovuto vedere solo un vecchio pazzo e la sua rana precipitare da un balcone con alle spalle centinaia di baracche colorate e puzzolenti, ma a quel tempo mi piaceva troppo la storia dell'uomo che volava, per questo motivo ho deciso di raccontare del vecchio Radu Klibansky e di Brezniezne, il villaggio dei folli.
La prima volta che vidi il vecchio in piedi era immobile e magrissimo sul ciglio di una strada, sembrava uno stilita bizantino nel deserto con lo scheletro di ferro battuto avvolto da una guaina di cuoio, o una di quelle sculture in legno di basso artigianato che i mercanti piu' poveri cercavano di vendere al mercato di Kanguskya dietro casa nostra.
Stava immobile da ore accanto la sua rana, con le anziane bretelle al vento a fissare un punto esatto del cielo dove dal nulla, all'improvviso, comparve un branco di sarde che saltava tra le nuvole.
- pesci mistici - disse a bassa voce.
Pesci che volavano...ricordo che non capivo se fosse la realtà o la conseguenza di qualche lieve commozione cerebrale dovuta alle singolari cure dio mio nonno, e rimasi così per tutto l'inverno del '40, senza parole.
Con il lentissimo tempo delle stagioni bielo-prussiane il vecchio Klibansky si merito' da parte mia tutto quel rispetto e quella devota ammirazione che per educazione avevo solo per le icone che mio nonno appendeva un po' ovunque in casa nostra, e che a volte usava per picchiarmi.
SECONDA PUNTATA
Sfuggito a qualsiasi tentativo classificazione Klibansky era... una particolare specie di vecchio misantropo ammuffito ormai da anni votato ad un solo obiettivo: volare.
La prima cosa che stupiva di lui era che fosse ancora vivo nonostante la sua indefinibile eta' e nonostante si nutrisse solo di tonno seccato al sole. Ho sempre pensato che la sua longevità fosse dovuta ad una strana e silenziosa energia datagli dal continuo inseguire il suo assurdo ed eruditissimo sogno fatto di teorie complicatissime, pesci che volano, pezzi di legno, mura scrostate, attrezzi arrugginiti, miliardi di libri, citta' arancioni, scatolette di tonno e personaggi allucinanti, nonché a un raffinatissimo senso di repulsione per quasi tutto, specialmente per gli esseri umani, che lo teneva molto in allenamento.
Klibansky era per me un personaggio assolutamente fantastico come tutti i così detti folli che col tempo incontrai dentro Brezniezne, ma a differenza loro appariva triste, e non perché fossero tristi i suoi pensieri o ciò che a volte diceva, ma perché era triste la sua figura, forse per via della sua indomabile cifosi, o per la poco curata calvizie, o per lo sguardo alla Rodolfo II. In realtà non lo ricordo, ma chiunque lo avesse guardato anche solo per un momento sarebbe stato colto da una strana sensazione, meglio nota come sindrome di Koliakopf, e riportata come "mistoditristezzaeangelicaarmonia" nel "catalogo delle emozioni labili dei Fratelli Kristopante", grosso libro rilegato che a volte mio nonno usava per picchiarmi.
TERZA PUNTATA
Kanguskya Agosto 1958
La scaltrezza del movimento per la liberazione dell'alluce dalla forca di un calzino bucato, mentre il piede è ancora all'interno della scarpa, non è cosa da poco, il difficile è riuscire a far rientrare il dito dentro il calzino arcuando il minimo indispensabile il metatarso senza essere visti, e meglio ancora senza togliersi la scarpa.
Radu klibansky era un maestro in quest'arte inutile come in tante altre. Ad esempio era in grado di comunicare per ore e ore con mio nonno ubriaco di vino e yogurt senza dire una sola parola, ma lasciando strani segni sui vecchi fogli per incartare il tonno che si accumulavano a milioni in casa sua e per fortuna mio nonno era invece un maestro nell'arte di ascoltare, come in quella in quella di picchiarmi.
In un certo senso devo molto al suo elegante modo di educarmi, alla sua teoria che si cresce bene solo se si sanguina tanto da piccoli, o alla sua mania di abbracciare nudo un albero fino all'alba e poi camminare scalzo sulla neve, tutti ricordi dei suoi dolci pellegrinaggi invernali nella Backa serba, tra il Danubio e il Tibisco, durante la guerra.
Senza mio nonno e le sue legnate, e senza le dolorose sgambate in bici fino alle porte di Brezniezne non avrei mai conosciuto Klibansky, neanche i folli e tantomeno Smirne, la sua grassa rana ebrea.
Smirne Korskofp non era una rana qualunque, ma una Lithobates catesbeianus (secondo la classificazione di Shaw del 1802), meglio nota come rana bue, o rana toro. Non parlava molto, e impiegai diversi anni a farmene un idea chiara.
Conobbe Klibansky nel 1945, quando il vecchio era già avanti negli anni e Smirne era da poco sbarcato dal Bangladesh dove viveva clandestinamente dal 1938, anno in cui subodorando le folli intenzioni di Hitler riuscì a fuggire dalla sua amata Polonia. Una rana ebrea che conosceva Aristotele a memoria, mai vista una...
QUARTA PUNTATA
Ricordo dei tardo pomeriggi lunghissimi nella mia infanzia, pieni di una densissima luce arancione che digradava verso un noioso viola metallico, piu' o meno all'ora del tramonto, a volte in quei momenti mentre stavo immobile a fissare il cielo con Klibansky e Smirne alla ricerca dei loro pesci mistici, un acre odore di sudore misto a urina, acidulo, da anziano, si diffondeva nell'aria.
Al tempo non lo sapevo ancora, ma era una delle tecniche che il vecchio Klibansky usava per allontanare la gente (cosa che nei momenti di più alta malinconia faceva anche con ne), ed era solo una delle tante che col tempo avrei avuto l'onore di usare anche io.
Una delle peggiori che il vecchio usava era quella di contenere per giorni interi area nell'intestino, farla marcire per bene ed usarla nei rari momenti in cui aveva attorno gente indesiderata.
Non era facile da realizzare, specialmente con quell'eleganza e senza emettere alcun rumore, ma i tantissimi anni di studio di Patanjali e di chimica delle interfasi evidentemente erano serviti a qualcosa.
QUINTA PUNTATA
E' sempre con una grande melanconia che ricordo il tempo in cui Klibansky sedeva sul tavolo di legno pieno di scarti di tonno, con i suoi calcoli e le sue misurazioni prima di gettarsi dal balcone nel tentativo di volare.
Ore ed ore di immobilità immerso nella luce di quella stanza con la sua rana, ed io lì ad osservare mentre lui, guardando la finestra, misurava il cielo con una strano serie di strumenti artigianali che a quel tempo per me non avevano alcun senso.
Ricordo ad esempio lo "statoiannico", un miscuglio di piccole lastre di ferro collegate da fili di cuoio che bloccavano un piccolo braccio di legno dove ad un'estremità era posto il mirino di una vecchia macchina fotografica degli anni quaranta di fabbricazione russo-etiope, e dall'altro un piccolo recipiente trasparente dove all'interno un canarino morto, con un'asticella conficcata nel ventre, galleggiava in un liquido con una meravigliosa gradazione di verde veronese, pieno di muffa.
Lo statoiannico serviva a misurare, a detta di Klibansky, la profondità dell'aria....
che concetto meraviglioso....ma che cos'era la profondità dell'aria?
era il risultato distillato dalla lettura di milioni di libri che negli anni Klibansky aveva divorato, anche fisicamente.
Alcuni li rubavo io in biblioteca travestendomi da Picasso o da Gertrude Stein, altri li trasportava illegalmente mio nonno con un carro funebre a gasolio pieno zeppo di galline. Così con gli anni il vecchio aveva accumulato un incredibile quantità di libri, tra i quali spiccavano i "Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica e ai moti locali" di Galileo in una preziosissima edizione originale del 1639 con la quale Smirne spesso dormiva, o i saggi di Payson Evans Edward con le documentazioni dei processi penali con relative condanne contro diversi tipi di animali nel sette e ottocento, o ancora vecchie traduzioni dei testi di Areteo di Cappadocia, con le varie teorie sulla tristezza, lo scoraggiamento e la tendenza al suicidio....
Con la sua frenetica lettura aveva imparato fin troppe cose, e basandosi su pericolosissimi calcoli con altrettanto pericolosi strumenti e agghiaccianti moltiplicazioni per un numero che lui chiamava "di Tolomeo", aveva elaborato una complessissima teoria secondo la quale sosteneva di poter trovare dei punti nell'aria dove il rapporto tra la pressione idrostatica, la longitudine, il vento e chissà cosa, determinassero una densità tale che fosse possibile galleggiare, nell'aria...
tanto più grande era il fantomatico numero di Tolomeo (espresso come mi fece notare una sera d'agosto Smirne in Gradi Bulgari), tanto più alta era la profondità dell'aria, e tanto più forte la resistenza alla gravità e quindi la possibilità di galleggiare nell'aria, e di volare...
Il tutto era confermato da uno stranissimo fenomeno al quale anche io ho avuto modo di assistere, la visione dei Pesci Mistici...
SESTA PUNTATA
Ma cos'erano? da dove venivano i pesci mistici?
Ero forse vittima di qualche dono regalatomi misteriosamente dal Signore in seguito ad una commozione cerebrale dovuta ai curiosi metodi educativi di mio nonno? Non saprei.
Ad ogni modo io ero spesso lì, con i miei occhi, a volte pesti a volte no, ad osservare immobile la bellezza di quella scena, branchi di pesci che saltavano sulle nuvole lasciando dietro di se un luccicchio dorato, sempre e solo nel tardo pomeriggio, quando l'aria era fresca e la luce arancione tendeva al violaceo con accenni di blu di prussia, e il tutto aveva un meraviglioso tono di santità.
Si trattava di pesci provenienti dal medio oriente (ebbi modo di sapere leggendo gli appunti di Klibansky), da San Giovanni d'Acri in particolare. Era una rarissima specie di sarda, la Sardina Pilchardus Sanctis, pesce immangiabile ma elegantissimo, il quale sei o sette volte l'anno colto da vocazione mistica comincia a volare ripercorrendo a ritroso, ma su un' altro parallelo, la strada che portò Papa Gregorio X da Brindisi a Gerusalemme, sfruttando in modo assolutamente istintivo i vari punti di maggiore densità dell'aria. Sembra però che per via del traffico aereo abbiano perso un pò il senso dell'orientamento...
Con gli anni ho assistito migliaia di volte a quelle scene, tutte le volte che i pesci volavano accanto al balcone di Klibansky lui si gettava dal trampolino di tubi di ferro montati sul balcone nella speranza di aver azzeccato i calcoli o l'osservazione del punto di densità esatto per galleggiare.
Regolarmente finiva per terra assieme a Smirne mentre io poggiavo i gomiti sulla ringhiera di cartone e guardavo il sole tramontare sul villaggio di Brezniezne.
Da li potevo vedere i tetti delle baracche pieni di stoffe lerce e colorate, le antenne artigianali per le radio, le fogne a cielo aperto, il tendone del circo-biblioteca gestito da due maiali da caccia, lo strano derelitto del sommergibile a vapore che Pellegrino Tolstoj pensava funzionasse, o il negozietto di non so cosa del signor S.P. Haindoven, un meraviglioso vecchietto di 25 chili che portava al collo una scatoletta arrugginita dove diceva si nascondesse la “causa di tutte le cose”.
Erano tutti personaggi che fino ad allora avevo solo visto dall'alto, ma nel giro di poco tempo avrei conosciuto a fondo.
SETTIMA PUNTATA
Ricordo ancora la prima volta che entrai nel villaggio e quando scoprii il significato di W.C.
Spesso, prima di conoscere Klibansky, quando scendevamo al fiumefogna a pescare i salmoni con la bocca, mio nonno spariva all'entrata del Villaggio dei Folli dicendomi
-piccolo ratto sono al W.C.- ed io, pensando che fosse una sorta di vecchio e orrido cesso e non avendo avuto ancora la voglia di conoscere quel mondo, andavo via dal villaggio coi salmoni in tasca aspettando che mio nonno tornasse a casa per picchiarmi. Quando un giorno Klibansky mi portò per a prima volta al villaggio con se per trovare alcuni dei suoi rarissimi amici capii invece che era uno dei posti più allucinanti ed interessanti che avessi mai visto, e capii anche cosa era il W.C.
Era il luogo di riunione un po di tutti, dove immensi tavoli di legno pieni di tappetti, cianfrusaglie, candele ed enormi recipienti di rame colmi di yogurt e vino, erano sovrastati da un enorme statua fatta di spazzatura varia, materassi, carrelli della spesa, carcasse di auto, armi della grande guerra e tanto altro, e montate tutte assieme a quel modo ritraevano le fattezze di un enorme Billy Wilder che stringeva la mano a Camus.
W.C... Wilder-Camus, perchè non ci avevo mai pensato?
Vicino al W.C. Abitavano Carcasshyu e sua moglie Politovska, un degli esseri umani più belli, complicati e logorroici che abbia mai incontrato.
Agghindata sempre come la Madonna di Trapani aveva la stessa rumorosa vitalità di un vecchio transessuale ucraino con sotto la parrucca quasi la stessa magnifica mente malata di Godel.
Mentre la sua pomposità da vecchia duchessa napoletana in decadenza era raddolcita dalla stessa fisicità del Dalai Lama il suo sorriso un po dorato un po cariato mi faceva sempre sentire a casa. Grassottella, morbida e buona.
Non ricordo di averla mai vista in piedi, ma sempre seduta davanti casa con una enorme gonna di lana a friggere di continuo per chiunque nel villaggio, e sempre a raccontare storie assurde che millantava essere vere, come quella di Gunter Grass che nel '59 scrisse il tamburo di latta stando seduto per terra sotto la sua gonna mentre lei ri-friggeva patate ungheresi.
Chiunque le passava davanti si fermava anche solo per salutarla, tutti le chiedevano consigli, e tutti l'amavano, e per quanto fosse sposata da milioni di anni aveva ancora negli occhi quel classico luccicchìo civettuolo da passeggiatrice dei portici di Marsiglia.
Era il luogo di riunione un po di tutti, dove immensi tavoli di legno pieni di tappetti, cianfrusaglie, candele ed enormi recipienti di rame colmi di yogurt e vino, erano sovrastati da un enorme statua fatta di spazzatura varia, materassi, carrelli della spesa, carcasse di auto, armi della grande guerra e tanto altro, e montate tutte assieme a quel modo ritraevano le fattezze di un enorme Billy Wilder che stringeva la mano a Camus.
W.C... Wilder-Camus, perchè non ci avevo mai pensato?
Vicino al W.C. Abitavano Carcasshyu e sua moglie Politovska, un degli esseri umani più belli, complicati e logorroici che abbia mai incontrato.
Agghindata sempre come la Madonna di Trapani aveva la stessa rumorosa vitalità di un vecchio transessuale ucraino con sotto la parrucca quasi la stessa magnifica mente malata di Godel.
Mentre la sua pomposità da vecchia duchessa napoletana in decadenza era raddolcita dalla stessa fisicità del Dalai Lama il suo sorriso un po dorato un po cariato mi faceva sempre sentire a casa. Grassottella, morbida e buona.
Non ricordo di averla mai vista in piedi, ma sempre seduta davanti casa con una enorme gonna di lana a friggere di continuo per chiunque nel villaggio, e sempre a raccontare storie assurde che millantava essere vere, come quella di Gunter Grass che nel '59 scrisse il tamburo di latta stando seduto per terra sotto la sua gonna mentre lei ri-friggeva patate ungheresi.
Chiunque le passava davanti si fermava anche solo per salutarla, tutti le chiedevano consigli, e tutti l'amavano, e per quanto fosse sposata da milioni di anni aveva ancora negli occhi quel classico luccicchìo civettuolo da passeggiatrice dei portici di Marsiglia.
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